A Francesco,
Viva la vida

Ho rimandato questo momento per oltre dieci anni. Prima o poi, mi sono promesso più volte, avrei scritto qualcosa su Francesco. Non per il gusto di scriverne né perché “tu sei quello della famiglia che scrive, devi farlo prima o poi”. No. Se scrivo qualcosa su Francesco è perché ho qualcosa da scrivere su Francesco, non perché andava fatto.

Se non l’ho mai fatto prima è perché non si tratta di scrivere un articolo come ne ho scritti migliaia nel corso della mia vita. Non è un saggio di scrittura, quello che sto per fare. In questo caso si tratta di parlare di un cugino di poco più di 18 anni barbaramente ucciso a colpi di pistola. Non so nemmeno quanti colpi, a essere sincero. L’ho rimosso. Nove o dieci, credo. Tutti a distanza ravvicinata, perché chiunque sia stato voleva essere certo che morisse.

Francesco, quindi, era mio cugino. Il figlio del fratello di mia madre. E qui serve un primo passo indietro nel tempo.

Ho cominciato a preoccuparmi per lui quando ancora non era nato. Era sera, dopo cena, nel 1991. Io avevo poco più di 11 anni e mia zia, incinta più o meno di 7 o 8 mesi, come spesso succedeva, visto che viveva giusto due rampe di scale più in alto di noi, era a casa mia. Ho un ricordo molto nitido di quella sera: io ero in camera, già in pigiama, quasi pronto ad andare a letto, e mia zia era lì, spalle all’armadio legno chiaro con un grande adesivo dei Puffi appiccicato sopra. Mi prendeva in giro per qualcosa, ridevamo. A un certo punto, convinto di fare un gesto comico, afferro un quadernone di scuola e assesto un colpo fortissimo, soprattutto se si considera che a darlo era un bambino di undici anni neppure così forzuto, sul pancione. Mia zia si piega su se stessa portandosi la mano al ventre, io mi pietrifico con la bocca aperta, mia madre corre in camera a soccorrerla e mi lancia un’occhiata delle sue. Mia madre porta mia zia in soggiorno, la fa sedere sul divano. Io percorro il breve corridoio in un tempo che mi è sembrato infinito. Sbircio dallo stipite della porta e vedo zia pallida, respirare nervosamente. Per qualche minuto ho temuto di aver fatto una di quelle cose che nessuno potrebbe mai perdonarti in tutta una vita, nemmeno volendo. E io Francesco, che ancora non era nato, l’ho conosciuto in questo modo traumatico. Da quella sera in poi, una volta appurato che era stato solo un grande spavento, per me Francesco era diventato qualcosa di sacro, intoccabile, un tesoro da custodire gelosamente.

Ma Francesco avrebbe presto dimostrato di essere un tesoro capace di difendersi benissimo da solo. Certo, scriverlo adesso fa impressione, visto come è andata a finire. Ma ci sono cose dalle quali nessuno potrà mai difenderti.

Sin da piccolo era irrequieto, movimentato, una sorta di Dennis the Menace perennemente alla ricerca di guai. Un tornado di energia e vitalità, sempre col sorriso sulle labbra, soprattutto se stava per fare una marachella delle sue. E non ti potevi nemmeno arrabbiare più di tanto, in realtà, perché al momento opportuno sfoderava uno dei suoi sorrisi irresistibili, con quella faccia d’angelo e gli occhi belli che ti ipnotizzavano.

Francesco era bellissimo. Aveva i colori del nonno paterno e della nonna materna: occhi chiari e pelle di un candore quasi irreale. Chiunque lo abbia incontrato almeno una volta nella vita non potrà mai dimenticare quel viso. Così come è indimenticabile la sua risata rumorosa e un po’ beffarda, che somigliava a un motorino ingolfato che prova a partire. Era anche simpatico, Francesco. Lo era davvero, lo era per tutti. A volte era anche troppo simpatico, nel senso che se una cosa lo faceva divertire, lui la faceva e la rifaceva fino allo sfinimento. Io ero il cugino grande e spesso dovevo fare il poliziotto cattivo per provare a placare la sua irrefrenabile vitalità. Non mi ha mai dato ascolto, neppure una volta. Mi guardava, rideva e continuava a fare quello che stava facendo. Paradossalmente, il suo rispetto nei miei confronti è arrivato quando lui era già un adolescente forse più maturo di me, quando ha passato un bel po’ di tempo da noi e gli avevo ceduto la mia camera, visto che io vivevo e lavoravo a Roma.

Lo so, sto divagando troppo, ma mentre scrivo mi vengono in mente mille cose che avevo sotterrato in questi dieci lunghissimi anni. Stavano lì, sommerse dal dolore e dalla rabbia, dalla paura di farle riemergere. E per egoismo speravo che restassero lì, perché ogni volta che penso a Francesco divento ombroso, gli occhi mi si velano di lacrime e in mente mi torna subito il momento più brutto della mia vita, il momento in cui ho saputo della sua morte.

Era il 5 dicembre 2009, sabato sera. Quella sera ero uscito con gli amici ma non volevo fare tardi perché la sera prima ero andato a ballare, tornando a casa all’alba. Un giro all’ombra del Colosseo, quattro chiacchiere e poi di corsa a casa. Era più o meno mezzanotte quando ho accesso la tv. Su RaiUno c’era il telegiornale e ho deciso di non cambiare canale.

Tutti i ricordi di quei momenti sono chiarissimi nella mia mente. Spesso non ricordo cosa ho fatto il giorno prima o i nomi di gente che ho visto decine di volte e proprio quello che vorrei dimenticare resta lì, marchiato a fuoco nella memoria.

Tra le tante cose che ricordo perfettamente c’è il volto di Cinzia Fiorato, giornalista del Tg1. Era lei a condurre l’edizione di quella sera tarda di inizio dicembre e io ascoltavo distrattamente, mentre mi cambiavo per la notte. All’improvviso, una frase ha attirato la mia attenzione: “Omicidio a Taurianova, nella piana di Gioia Tauro”. Tra Taurianova e Rizziconi, il mio paese, ci sono 11 km. Undici chilometri di una strada tortuosa che si fa largo tra uliveti e agrumeti, una strada che mi è sempre piaciuta particolarmente perché aveva un asfalto strano: non c’era il bitume classico ma dei grandi lastroni rettangolari di cemento, messi uno dietro l’altro chissà da quanti decenni, con buche rattoppate qua e là come se ne vedono tante da Roma in giù.

“Omicidio a Taurianova”, dunque: tre parole che mi hanno bloccato nel disimpegno minuscolo tra camera e soggiorno della mia casa romana. “Fammi sentire cos’altro è successo da quella parti, va”, ho pensato una cosa del genere. Un pensiero durato un paio di secondi ma era come se Cinzia Fiorato mi avesse aspettato prima di continuare a parlare: “Ucciso a colpi di arma da fuoco il diciottenne Francesco Inzitari”. In quel momento ho sentito una vampata di calore in testa, una sensazione orribile che ricordo benissimo. Credevo sarei morto in quel momento, sentivo la testa infuocare e esplodere. Ero da solo, a 640 km di distanza dalla mia famiglia e avevo appena scoperto dal telegiornale che il mio cuginetto appena diciottenne era stato ucciso a colpi di pistola. Nei secondi successivi avrò percorso chissà quante volte i pochi metri del mio appartamento, andavo avanti e indietro tra soggiorno e camera da letto. Ero da solo. Avevo bisogno di parlare con qualcuno. Ho preso il cellulare e il primo nome che mi è venuto in mente è stato quello di Barbara, direttore della rivista dove lavoravo. Il mio capo, quindi, ma anche una persona amica, che conoscevo da tre anni ma con la quale si era instaurato un rapporto franco e sincero. Era l’una di notte e la prima cosa che ho detto a Barbara è stato un educatissimo “Scusa l’orario”, per poi scaricare su una persona che probabilmente stava dormendo una tragedia enorme da processare, anche solo da ascoltare. A ripensarci adesso, mi sento terribilmente in colpa nei confronti di Barbara. Quella chiamata è stata un macigno e non l’ho mai ringraziata abbastanza per avermi ascoltato, per avermi tranquillizzato per quanto possibile.

Pochi secondi di telefonata, poi ho deciso di chiamare la mia famiglia. Perché il telegiornale annunciava una tragedia del genere e io ancora non ne sapevo nulla? Magari si sono sbagliati. Magari non era Francesco il ragazzo ucciso. Mentre aspettavo che mia madre rispondesse al cellulare pensavo queste e altre mille cose. Mi davo mille spiegazioni consolatorie. Non può essere vero, lo avrei saputo. Intanto, il cellulare di mia madre squillava a vuoto per un po’ ma io non mi arrendevo. Mentre stavo per cedere, ho sentito mia sorella dall’altro capo del telefono

“Domi…”

“Mari…”

Null’altro. Non ci siamo detti null’altro. Lei è scoppiata a piangere e io ho capito che era tutto vero, che Francesco era stato ucciso a colpi di pistola. Mi sembrava una cosa assurda ma era tutto vero.

“Perché non me lo avete detto? Perché?”

Perché non volevano farmi andare nel panico, ecco perché. A casa mia le brutte notizie non si dicono. Può sembrare strano, ma non si dicono. I miei genitori hanno sempre provato a proteggere noi figli da qualsiasi preoccupazione anche minima, figurarsi da una tragedia del genere. A fin di bene, spesso ci tengono all’oscuro da cose che dovremmo sapere, che riguardano noi esattamente quanto riguardano loro. Ma sono due genitori calabresi, tra l’altro particolarmente apprensivi.

E dopo aver avuto la conferma della morte di Francesco è arrivata un’altra frase terribile: “Devi andare da Nicoletta, lei non sa che è morto ma solo che è ferito. Glielo devi dire tu”.

Nicoletta è la sorella di Francesco e viveva a Roma per studio. All’epoca aveva 22 anni ma già allora era la donna matura, fiera e coraggiosa che è ancora adesso. Il mio compito, però, era davvero troppo. Pensavo che non avrei mai avuto la forza di guardare mia cugina negli occhi e dirle che suo fratello era morto a 18 anni, 1 mese e 22 giorni.

Ricordo il lento ascensore che mi portava al portone di casa sua, dove c’era il suo fidanzato di allora (oggi suo marito) a farle compagnia. Era uno di quegli ascensori aperti, quelli con le grate di ferro, e la prima cosa che ho visto mentre arrivavo al piano è stata la sua faccia. La prima cosa che mi ha detto è stata lancinante: “Se sei venuto qui all’una di notte vuol dire che è morto”. Il tono di voce era piatto, lo sguardo fisso. Non mi stava rivolgendo una domanda. Mi stava comunicando che aveva capito. Non ho avuto nemmeno il tempo di arrivarci delicatamente, di cercare le parole giuste: “Sì Nico, è morto”. Ho detto solo questo e sono scoppiato a piangere. Nei suoi occhi ho visto rompersi qualcosa ma no, non ha pianto. Perché Nicoletta piange poco. Perché Nicoletta vuole essere forte, soprattutto di fronte a se stessa. Ma quel crack dell’anima io l’ho sentito, mentre ci guardavamo seduti in silenzio sui suoi divani di pelle. Io ero arrivato con uno zaino nel quale avevo messo alla rinfusa jeans, due maglioni, mutande e tre calze spaiate. Ora dovevamo tornare a casa prima possibile. Era inconcepibile per me, figurarsi per lei, essere ancora lì mentre la mia famiglia stava vivendo una tragedia di quelle proporzioni. Non avevamo l’automobile a Roma, dovevamo aspettare. Il primo mezzo di trasporto per arrivare in Calabria era l’aereo delle 6.30. Mancavano ancora cinque ore. Cinque ore che non potrò mai dimenticare perché le abbiamo trascorse in assoluto silenzio. Non ci siamo scambiati nemmeno una parola. Eravamo tutti e tre impietriti. Silenti e impietriti. E poi, cosa avremmo dovuto dirci? Quale frase avrebbe potuto mai lenire il mio e soprattutto il suo dolore?

Ricordo la corsa in taxi verso Fiumicino, mentre su Roma spuntava l’alba di una domenica di dicembre. Il tassista non ci ha rivolto parola e chi conosce i tassisti di Roma sa che è strano assai. Probabilmente aveva letto in quei tre volti un dolore indicibile, la voglia di correre a prendere l’aereo che ci avrebbe portato a casa. Della corsa in taxi ricordo un particolare: una canzone alla radio, una canzone bellissima che da quel giorno non riesco più ad ascoltare. Quando mi è capitato di sentirla, in questi dieci anni, ho subito spento la radio tra le lacrime. La canzone è “Ti vorrei sollevare” di Elisa e Giuliano Sangiorgi.

I ricordi successivi sono molto più sfuocati, forse perché più ci avvicinavamo a casa e più allentavo le difese, mi lasciavo andare al dolore. Non dovevo più mostrarmi forte. Potevo cedere.

L’arrivo a Lamezia. La corsa in automobile fino a casa. L’arrivo a casa dei miei zii attorno alle 9 del mattino. La folla, la gente che ci abbracciava. Gente senza volto, senza voce. Non ho visto né sentito nulla. Mi sentivo solo strattonare da mani che volevano consolarmi ma non facevano altro che rallentarmi nella mia corsa sulle scale. L’ingresso in una casa piena di gente. L’urlo lancinante di mia zia quando ci ha visti arrivare. Le lacrime di mia madre. Quelle dolorosissime dei miei nonni, che all’epoca avevano 80 e 78 anni. Poi non ricordo più nulla di quel giorno. Un vuoto. Non ricordo cosa ho detto, non ricordo cosa ho fatto. Il ricordo successivo è il giorno del funerale. Un funerale pieno di gente, di indignazione, di rabbia e di coraggio. Io piangevo, piangevo e piangevo. Sono un tipo emotivo già di mio, piango a dirotto anche guardando C’è posta per te. Figurarsi lì, mentre guardavo incredulo quella bara. Ma il coraggio che ho respirato nella sala enorme della Casa Pastorale lo ricordo fin troppo bene. Mi dava speranza, mi faceva credere che Rizziconi si era finalmente resa conto della barbarie di certe dinamiche e che non ci stava più. C’era stato bisogno di un sacrificio così doloroso, c’era stato bisogno che un diciottenne buono come il pane venisse barbaramente ucciso, ma qualcosa si stava muovendo. Per un po’ di tempo la comunità è stata unita nel dolore, vicina a tutti noi familiari. Poi, si sa, il tempo fa dimenticare anche le cose indimenticabili. E tanti, troppi, hanno dimenticato o hanno fatto finta di dimenticare. Ma questa è un’altra storia.

Così come è un’altra storia l’indagine sull’omicidio che non ha mai portato a nulla. Così come è un’altra, dolorosissima storia, quello che ci ha condotti a quella tragedia. Altre storie che non posso raccontare io. Ancora oggi, a dieci anni di distanza, non ho la lucidità necessaria per raccontare vicende che hanno rovinato la vita della mia famiglia e, soprattutto, hanno spezzato la vita di un ragazzo buono come il pane, di un angelo irrequieto e generoso, di un giovane con la maturità di un adulto ma la spensieratezza di un bambino.

A volte mi sorprendo a provare a ricordare la sua voce. Ultimamente non la ricordo più e questa cosa mi fa malissimo. Non riesco più a ricordare la voce di Francesco. Sono un mostro.

E in questi dieci anni mi sono sentito spesso un mostro mentre ridevo, mentre mi divertivo, mentre provavo una gioia particolarmente grande. È giusto, mi sono chiesto più volte e mi chiedo ancora oggi, provare gioia dopo un dolore del genere? È giusto continuare a vivere mentre Francesco è morto ed è morto in quel modo? Tutti mi dicono che è giusto, che è normale, che è umano. Io una risposta ancora non ce l’ho. Non lo so se è giusto. Quello che so è che Francesco non c’è più, che i suoi sogni sono stati portati via da mostri senza scrupoli, che la mia famiglia non ha avuto ancora giustizia, che mi sento in colpa perché da anni non riesco più ad andare a trovare Francesco al cimitero, che Francesco mi manca ogni giorno della mia vita, che mi mancano persino le sue rotture di cazzo da cugino minore che deve farti disperare per contratto.

La cosa che mi manca più di tutte, però, è il momento poco prima di andare a dormire, quando lui stava dai miei e io ero lì per le vacanze estive. Dormivamo insieme, nella stessa camera, e lui voleva parlare fino a tardi mentre io lo imploravo di metterci a dormire. L’ultima cosa che facevamo prima di spegnere la luce era diventato ormai un rito irrinunciabile: dovevamo ascoltare una canzone. Non una diversa ogni sera, nossignore. Ve l’ho detto: quando a Francesco piaceva qualcosa, la ripeteva all’infinito.

Ogni sera ascoltavamo Viva la vida dei Coldplay. La cantava a squarciagola mentre mio padre, già a letto da ore, batteva sul muro invitandolo a tacere. Ma lui, che con mio padre aveva uno splendido e giocoso rapporto, rideva e cantava ancora più forte e lì io mi arrendevo, diventavo suo complice e cominciavo a ridere e a cantare a squarciagola. Era un periodo difficile per lui. Stava affrontando cose difficili e lo stava facendo con una maturità che gli ho sempre invidiato e che io probabilmente non ho neppure adesso, alle soglie dei 40 anni. Ma il sorriso non lo aveva perso mai e quel VIVA LA VIDA quotidiano, cantato mentre gli occhi bellissimi brillavano di voglia di vivere, è l’eredità più preziosa che mi ha lasciato. Ecco perché mi sono imposto di affrontare la vita col sorriso sulle labbra, sempre. Ecco perché provo sempre a sdrammatizzare tutto, ecco perché rido, canto e gioco sempre, anche quando è inopportuno. Perché per me vivere è diventato un privilegio che il caso mi ha concesso, mentre un ragazzino di 18 anni che la vita la voleva prendere a morsi non ha potuto farlo. Un privilegio che a volte credo di non meritare perché nessuno più di lui lo meritava. Nessuno.

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