Mio nonno era un insegnante elementare e negli anni Ottanta insegnava in una scuola di campagna. Non sembrava affatto una scuola, in realtà. Era una vecchia casetta circondata da campi e alberi con due stanze adibite a classi. Una casetta dai muri scrostati, il tetto rotto con la pioggia che entrava dalle tegole sbeccate. Non c’erano i riscaldamenti, in quella scuola di campagna, ma una stufetta elettrica che nonno aveva comprato per riscaldare un po’ le sue mattinate e quelle dei suoi alunni.
Nonno aveva una pluriclasse, con un gruppetto sparuto di bimbi di terza, quarta e quinta elementare. In quegli anni anche io andavo alle elementari e, di tanto in tanto, nonno convinceva mia madre a non mandarmi a scuola e mi portava con lui in quella buffa scuola di campagna. Faceva freddo, era umido, ogni tanto in corridoio vedevamo passare un topolino. Eppure stare lì era un’esperienza fantastica perché assistevo al miracolo dell’insegnamento in un contesto non certo semplicissimo. Il suo era un approccio poco ortodosso.
L’esatto contrario di nonna, stimatissima e rinomata insegnante vecchio stampo al plesso cittadino, quello degli urbanizzati, della gente “normale”. Non era severo. Si faceva rispettare ma aveva capito che per spingere quei ragazzi di campagna verso curiosità di conoscere e di imparare bisognava toccare corde diverse, più profonde. Si rideva molto, in quella stanza umida e ammuffita della scuola di campagna. Nonno e i suoi alunni avevano una sorta di codice tutto loro, incomprensibile per gli altri, con frasi strane e filastrocche che iniziava lui e concludevano loro. E tra una filastrocca e una risata, nonno infilava con furbizia delle nozioni scolastiche, i numeri, le capitali, i verbi. Aveva capito, quel maestro di campagna poco ortodosso, che tra gli uliveti e gli agrumeti di Russo non poteva funzionare un insegnamento rigorosamente verticale, fatto di imposizioni e di rapporto tradizionale tra maestro e alunno.
In quella scuola di campagna si respirava muffa e libertà e io restavo estasiato ad assistere a quei botta e risposta continui tra ragazzi che probabilmente a scuola non ci volevano neppure andare e una sorta di pifferaio magico che ogni giorno li incantava per attirarli, però, non verso un precipizio ma verso un posto bellissimo fatto di conoscenza e soprattutto di curiosità. Negli ultimi anni prima della pensione, nonno era stato trasferito nella scuola del centro città, quella per persone “normali”, per ragazzi urbanizzati, perché la scuola di campagna aveva pochi alunni, non serviva più.
Nella scuola di città non c’erano topi, i termosifoni funzionavano, il tetto era integro e non pioveva in classe, i muri erano imbiancati e c’era persino la campanella! Tutto più semplice, tutto “normale”. Eppure, negli anni della pensione e fino all’ultimo giorno della sua vita, quando parlava di quella scuola ammuffita in mezzo alla campagna, nonno si illuminava.
Ricordava ancora ogni singolo nome di quei ragazzi semplici e veri, ricordava ogni filastrocca e modo di dire che aveva insegnato loro. Ricordava anche i topi, la stufetta a incandescenza che funzionava un giorno sì e uno no, ricordava le tegole sbeccate. E gli mancava anche questo. Gli mancava quel modo di essere maestro, quella sfida quotidiana che aiutava i bambini a sognare un futuro diverso e a cominciare a costruirlo.