Di cosa odora l’aria di casa?

A casa mia, in Calabria, potrei riconoscere il periodo dell’anno in cui siamo solo usando l’olfatto. D’inverno l’aria sa di fumo che sbuffa dai comignoli e impregna l’aria di un odore che è casa, famiglia, nonni appiccicati al caminetto, legna da scaricare da cassoni di un furgoncino e accatastare in ordine nei cortili, possibilmente sotto una finestra, così che i nonni anziani e fragili possano prenderla senza affaticarsi più di tanto. Quando rientravo da Roma per le vacanze di Natale, ai tempi dell’università, mi piaceva affacciarmi dalla finestra del bagno, chiudere gli occhi e respirare a pieni polmoni quell’aria di carbone. Lo facevo appena arrivato a casa, ancor prima di fare una doccia o mangiare qualcosa, di salutare i parenti o fare pipì. Era il segno che ero tornato a casa davvero, era lo stimolo olfattivo che segnava l’inizio di due settimane a velocità ridotta. All’odore della legna che arde nel camino, sempre nello stesso periodo, si affiancava spesso anche quello di mandarino. Il fumo acre che saliva dai comignoli lasciava di tanto in tanto spazio alle note dolci della buccia di un agrume che da queste parti è simbolo quasi identitario. Un odore tranquillizzante che ti sussurra all’orecchio che va tutto bene, che mamma è lì con te, che sei tra le mura di casa e niente e nessuno potrà farti del male. Un odore che mi ricorda la tombola, visto che la buccia di mandarino, sminuzzata con cura, era fondamentale per coprire i numeri della tombola nelle cartelle tradizionali, quelle senza le finestrelle difettose e che puzzavano di arida plastica. Io avevo il compito di sminuzzare la buccia per tutti, prima di cominciare con l’estrazione dei numeri. Lo facevo con un entusiasmo immotivato e ogni tanto mi annusavo le dita, con i polpastrelli sempre più impregnati di quelle note agrumate ma dolcissime e i piccoli residui arancioni che si incastravano sotto le unghie. Passato il Natale e il Capodanno, le festività si concludevano con un altro odore, ancora più forte e questa volta per nulla tranquillizzante. Tra Capodanno e l’Epifania, le strade e soprattutto le campagne della mia terra sapevano di sangue. Sangue di maiali macellati nel corso di un rito contadino secolare che oggi, per fortuna, è meno diffuso e che sa giustamente di barbarie. Me lo ricordo bene, quell’odore insopportabile, che non se ne andava neppure nei giorni a seguire nonostante mille docce compulsive. Neppure la preparazione quasi immediata del sanguinaccio, con l’aggiunta di cioccolato, rendeva meno fastidioso quella puzza ferrosa di morte. A proposito di odori forti, il più fastidioso, ma decisamente meno macabro, lo si avverte in autunno. È l’odore fortissimo della sansa, il residuo solido della spremitura delle olive. È un odore che si sente ancora adesso, persino nelle vie del centro abitato. Anche perché qui non è raro che l’olio si produca nel garage di casa. Sopportare la puzza di sansa è il sacrifico che da queste parti si fa volentieri. La ricompensa sarà un olio magnifico, corposo, fiero, forte, per stomaci importanti. Come tutto a queste latitudini. D’estate i profumi si affievoliscono, perché qui l’estate è spietata e l’afa è nemica dei sensi, anche dell’olfatto. Non si sente neppure il profumo del mare, in questo lembo di piana di Gioia Tauro che non è né carne né pesce, che il mare lo immagina soltanto, anche se ce l’ha a poco più di 5 km di distanza. D’estate ogni tanto si sente puzza di vegetazione arsa dal sole o di fumi di incendi spontanei che lambiscono il ciglio della strada che porta a Gioia Tauro. E l’olfatto per la prima volta chiede aiuto all’udito, visto che il crepitio delle fiamme si alterna al frinire dei grilli che oziano mentre attorno a loro la natura si sacrifica al dio Sole per poi rinascere, lenta ma inesorabile, nel corso delle stagioni che verranno. Il profumo estivo che più mi emoziona e mi fa tornare ai tempi più incoscienti, e dunque spensierati, della mia vita è però quello del pomodoro. Un odore che variava con il susseguirsi delle fasi che, in meno di 24 ore, avrebbero trasformato quintali di succose pepite rosse in schiere di bottiglie di salsa che ci avrebbero accompagnato per tutto l’anno. “Domani facimu i pumadora. Ncuminciamo e cincu!”. Svegliarsi alle 5 del mattino per un ragazzino in vacanza non era il massimo, ma la meraviglia di quel rito familiare valeva bene un’alzataccia. In realtà cominciava la sera prima, con le bottiglie da lavare minuziosamente. Quando ero bambino (seconda metà degli anni Ottanta) le bottiglie erano tutte diverse l’una dall’altra perché frutto di una lunga raccolta nel corso dei mesi. Le bottiglie di birra erano le migliori perché permettevano di confezionare formati di salsa più ridotti. Ma c’erano le bottiglie di vino, quelle dell’acqua Fiuggi, quelle di pessime “gazzose” (scusate ma da queste parti si dice così) prodotte nella zona o della Coca Cola da un litro. Al mattino dopo si cominciava con lo “spaccare” i pomodori.Lo facevo anche io e l’odore del pomodoro in quella fase era vigoroso, fresco, vivo, ancora indomito. Di quel momento ricordo le mani che cominciavano a prudere e a bruciare a contatto con un frutto della terra che sembrava ribellarsi al massacro, salvo poi arrendersi con un odore dolce al momento della bollitura. Dopo avere “spaccato” i pomodori il mio compito era quello di mettere una foglia di basilico in fondo a ogni bottiglia e l’odore fresco del basilico arrivava provvidenzialmente a lenire i bruciori acidi della fase precedente. La bollitura dei pomodori “spaccati” non mi competeva perché pericolosa, però mi era concesso girare la manovella dell’aggeggio che trasformava i pomodori bolliti in salsa fumante. Riempivo le bottiglie fino all’orlo, anche se mi veniva detto di continuo di fermarmi prima di raggiungere il collo. L’odore della salsa qui era più docile, addomesticato, aveva abbandonato la reazione urticante a naso e pelle per abbracciare il proprio destino e farsi nettare dolcissimo e vellutato. L’ultimo odore del rito di “pumadora” era quello della legna che alimentava il fuoco sotto un calderone enorme da strega, dentro il quale le bottiglie piene compivano l’ultimo passo prima di affollare gli scaffali di ripostigli e credenze. A fine giornata, stanchissimo ma felice, salivo le due rampe di scale che da casa di nonna mi riportavano alla mia con il naso invaso da tanti odori contemporanei, quasi a riassumere quel rito a cui tanto tenevo. La mia t-shirt bianca, chiazzata di pomodoro, odorava del frutto del mattino, quello ancora indomito. Tra i capelli si era rifugiato l’odore di fumo del calderone. Dalle braccia cotte dal sole, infine, salivano zaffate di Foille, intruglio farmaceutico nemico dell’olfatto ma salvatore dell’epidermide.

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