La prima volta che è successo era una sera di giugno del 2002. Mi sentivo strano, inquieto. Sono andato in bagno per sciacquarmi la faccia perché mi sentivo infiammare il volto. Poi stavo facendo pipì e ho appoggiato la mano sul muro. Fissavo le dita e non riuscivo a metterle a fuoco. Vedevo tutto appannato. Intanto, sentivo il cuore battere sempre più veloce. Era come se un tamburo tribale scandisse i colpi decisi e ritmati di una danza di guerra. Stava per scoppiare il finimondo nella mia testa e ancora non lo sapevo.
In quel momento ho pensato soltanto: “Sto per morire”. Sono tornato di corsa in camera, ho cominciato a muovermi nervosamente, a farmi dominare dal panico più totale. I ricordi da quel momento in poi si fanno confusi. So solo che a un certo punto non ci vedevo più. Letteralmente. Poi ricordo solo la sirena dell’ambulanza. Qualcuno che provava a tranquillizzarmi. Una iniezione.
Il ricordo successivo è all’alba. Ero nel cortile del Pronto Soccorso dell’Umberto I di Roma. Mi faceva male la testa, ero ancora intontito da quello che immagino fosse un calmante, sparatomi nelle vene qualche ora prima per farmi smettere di urlare che stavo per morire, che non volevo morire ma stavo per morire. Era il mio primo attacco di panico. Avevo 22 anni e il vaso di Pandora si era finalmente (e inevitabilmente) scoperchiato.
Sono sempre stato ansioso, sin da piccolo. Emotivo, ansioso, pauroso. Avevo mille fobie, mille paure. Ero terrorizzato dai cani, dal buio, persino dai piccioni. Mi sentivo solo “speciale”, un ragazzino che aveva avuto la fortuna o la maledizione di essere nato più sensibile degli altri. Quella sera di giugno, però, aveva cambiato tutto.
Aveva smascherato la narrazione semplicistica che mi aveva accompagnato in quei primi 22 anni di vita. Ora avrei dovuto affrontare i non detti, le ipocrisie, le maschere borghesi che tenevo in piedi attaccate alla bell’e meglio per non scontentare nessuno.
L’attacco di panico è un’esperienza terribile, soprattutto se è forte come lo era stato quella sera. Ti senti morire. Sei convinto di morire. E poco conta se ti spiegano che no, non morirai, che è solo ansia, che devi mantenere la calma, che devi essere forte. “Devi essere forte”. Quante volte me lo son sentito dire, nei mesi successivi. “Devi essere forte”. Come se soffrire di attacchi di panico fosse segno di estrema debolezza, di mollezza caratteriale. Come se fosse una colpa, non un’accidente. Come se, in fondo, basta dirsi che tutto va bene per non farseli venire. “E’ forza di volontà! Resisti”.
E quando cominciamo a sentirmi infuocare la testa, quando la palpitazione accelerava all’improvviso, quando mi sentivo confuso e perso in mezzo alla gente, quando partiva tutto mi sentivo anche in colpa.
“Ecco, sono un debole, nemmeno stavolta sto riuscendo a controllarmi”. Era una circolo vizioso che si autoalimentava: mi sentivo in colpa perché soffrivo di attacchi di panico, soffrivo di attacchi di panico perché mi sentivo in colpa.
Da quella terribile notte di giugno era cominciato un periodo che nei miei ricordi confusi sembra lunghissimo, infinito. Qualche mese, presumo, anche se la fase critica sarebbe durata un mese o poco più. Mi svegliavo con il terrore che il panico tornasse a farmi visita. Aprivo gli occhi al mattino con spaventosa rassegnazione. Avrei preferito dormire 24 al giorno, 7 giorni su 7, finché la cosa non si fosse risolta da sola. Spoiler: la cosa non si risolve mai da sola, ma questo non lo sapevo ancora.
In quel periodo avevo una sorta di velo immaginario sempre presente davanti agli occhi che mi offuscava la vista e la mente. Mi facevano male gli occhi, mi sentivo stanco. Volevo solo dormire e piangere, piangere e dormire. Avevo tanta paura e temevo che quello stato quasi catatonico sarebbe durato per sempre. Quasi ogni giorno tornavano gli attacchi di panico. Solo che adesso sapevo di che si trattava e soprattutto li sapevo riconoscere al primo segno. Appena sentivo che la testa cominciava ad avvampare, avvisavo chi stava con me che stava per partire la giostra, che da lì a qualche minuto avrei cominciato a sudare, poi a controllare compulsivamente il battito cardiaco, poi mi sarei sdraiato e avrei provato a tranquillizzarmi con il training autogeno, fallendo miseramente.
Il passo successivo sarebbe stata la granitica certezza di un infarto in corso, la richiesta urgente di un medico, i pianti e un senso di disperazione che ancora adesso, a distanza di quasi vent’anni, ricordo con terrore. Alla fine mi sarei tranquillizzato e avrei ceduto al sonno rigeneratore dopo quella liturgia ansiosa che ti lascia distrutto, spossato, svuotato fisicamente ed emotivamente.
Dopo un paio di mesi, grazie soprattutto a un approccio professionale e psicanalitico al problema, stavo già molto meglio. Nei due anni successivi gli attacchi di panico tornavano di tanto in tanto a ricordarmi che di ansia non si guarisce e che per tutta la vita avrei dovuto fare i conti con una parte di me che semplicemente mi caratterizzava.
Avrei dovuto controllarla, gestirla, ammansirla. Non certo sconfiggerla. E di sicuro non si tratta semplicemente di forza di volontà, di essere forti, di essere uomini (come qualcuno mi diceva in quei mesi terribili). Per quanto mi riguarda, perché ogni caso è a sé e non c’è un paradigma valido per tutti, il punto era capire perché. Perché in una tranquilla serata di giugno avevo perso il controllo? Perché avevo mille paure e fobie? C’era qualcosa che non andava nella mia vita? Stavo vivendo la vita che volevo vivere? Ero me stesso? Tutte domande alle quali nei mesi successivi ero finalmente riuscito a dare una risposta. E la cosa assurda, o forse nemmeno tanto, è che quello che sono oggi è “merito” di quel primo attacco di panico.
Da quella sera in poi mi sono finalmente confrontato con me stesso e piano piano ho sconfitto tutte le mie paure, nessuna esclusa. Ripeto: un attacco di panico forte è un’esperienza terribile che non auguro neppure al mio peggior nemico e ancora adesso, 19 anni dopo, se ripenso a quella sera mi diventano gli occhi lucidi. Però quella sera per me ha rappresentato anche la svolta definitiva di una vita che non era la mia. Esperienza terribile e epifania salvifica: può un attacco di panico essere entrambe le cose? Pare di sì, almeno nel mio caso.