“Roma è l’esempio di ciò che accade quando i monumenti di una città durano troppo a lungo”. Andy Warhol la vedeva così, la città in cui vivo da 23 anni. E se provassimo per un attimo a scordarci tutta la filastrocca che ci siamo raccontati per millenni, forse avremmo anche il coraggio di ammettere che aveva ragione. Io, perlomeno, sono sempre più convinto che sia così. Ci siamo innamorati dell’idea di Roma. E su quella idea ci siamo accoccolati, ci siamo appallottolati, abbiamo trovato una posizione comoda e non ci siamo più mossi. Quando sono arrivato a Roma, l’8 novembre 1998, ero terrorizzato. Venivo da un buco di culo di 7mila abitanti e quel mostro a cento teste non sapevo proprio come affrontarlo.
Era la Roma che si preparava al Giubileo, una Roma piena di cantieri, come se non fosse già infernale di suo. Mi sembrava tutto folle, senza senso. Perché dovrei passare due ore su un autobus per percorrere i 5 km scarsi che mi separano dall’università? Non ero abituato a tutto quel tempo perso, a quell’errare senza meta come una mosca sotto un bicchiere che si affanna e sbatte disperata fino cadere esausta. La sera ero così: esausto. Non mi bastava la bellezza, pur grande che fosse. Chi vive a Roma della bellezza del centro non sa che farsene. Passano mesi, anni, senza che un residente romano delle periferie o anche solo di zone residenziali semiperiferiche veda via del Corso, il Colosseo, Fontana di Trevi o il Gianicolo.
Noi che viviamo a Roma non siamo mica Goethe alle prese con il suo Grand Tour. Siamo formiche che corrono su e giù senza nemmeno sapere cosa stanno facendo. Roma non è San Pietro, Castel Sant’Angelo, Trinità dei Monti. O almeno non solo. Per noi che ci viviamo, Roma è il quartiere zozzo, è l’alimentari sotto casa (quello che i razzisti, consapevoli o no, chiamano “etnico”) che ci salva la vita perché siamo arrivati a casa tardi, il raccordo era congestionato, un bus si era piantato in mezzo alla carreggiata, qualcuno aveva bloccato la circolazione per una protesta e solo lì puoi comprare le sottilette e il pancarrè, pagandolo a peso d’oro, per saziarti prima di crollare a letto stremato da una giornata infernale.
Per chi ci vive, è una città ripiegata su se stessa, che si guarda allo specchio e vede un’immagine riflessa che non riconosce più. Vede una vecchia signora col trucco sbavato, gli occhi stanchi, le rughe profonde come le voragini che si aprono nelle strade. Non si riconosce perché l’hanno coglionata, le hanno detto che avrebbe conservato per sempre la propria abbagliante bellezza senza far nulla, senza tenere vivo il fuoco del progresso. Così, mentre le altre capitali valorizzavano quel che avevano affiancandolo a nuove meraviglie figlie dei tempi che cambiavano, Roma pensava che il tempo si fosse fermato a quando era giovane, bella e arrogante. Ma il tempo è passato e oggi Roma è solo arrogante.
Fa pena, però, perché è una arroganza figlia della disperazione, della frustrazione di aver perso troppo tempo e di non poterlo recuperare più. Quindi sta lì, davanti a quello specchio, a contemplare la propria decadenza. Piange, Roma, e non sa nemmeno con chi prendersela. Con se stessa, con chi l’ha coglionata, con chi ha succhiato per secoli da quelle poppe floride che erano il suo vanto fino a quando, avvizzite, non servivano più. Si parla sempre di rinascita con cieco ottimismo o interessata malafede. Il problema, però, è che per rinascere devi prima morire. Noi stiamo tenendo Roma in vita a ogni costo, con ottusa ostinazione. Lasciamola morire. Sarà doloroso ma è l’unico modo per farla rinascere davvero.